L’ARBITRO PER GLI ITALIANI
L’ARBITRO PER GLI ITALIANI
IL RICONOSCIMENTO DELLE DECISIONI ALTRUI AL TEMPO DEI SOCIAL MEDIA
E’ tempo di arbitri, è tempo di persone che si assumono la responsabilità di prendere decisioni che incidono direttamente sulle vite di tutti. L’arbitro per eccellenza occupa la carica più alta nell’organizzazione del nostro Stato: il Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato secondo la nostra Costituzione -che delinea una Repubblica di tipo parlamentare e non presidenziale- è il garante dell’applicazione della carta costituzionale e l’arbitro nella formazione del governo all’inizio di ogni legislatura, proprio come sta accadendo in questi giorni. Come previsto il nostro sistema elettorale non ha assicurato alcun vincitore e per poter formare il governo saranno necessarie complicate trattative ed eventuali accordi tra partiti che in campagna elettorale erano schierati su fronti opposti. E’ in questo momento che il Presidente della Repubblica, solitamente relegato in secondo piano sul palcoscenico della vita politica, in aderenza al ruolo di custode delle istituzioni, esercita il suo potere; un potere di fatto fondato sulla forza di persuasione sui partiti politici che scaturisce dall’importanza della carica e dalla personalità di chi quella carica occupa. Il compito, lo stiamo comprendendo giorno per giorno, non è affatto facile soprattutto in questa fase della nostra storia repubblicana caratterizzata da una dirompente voglia di cambiamento uscita dalle urne e che non potrà essere ignorata nella formazione dell’esecutivo. Contemporaneamente all’attenzione rivolta al Presidente Mattarella in questi giorni un altro arbitro è salito agli onori delle cronache: il 33enne inglese Michael Oliver, arbitro di calcio che nella partita di ritorno dei quarti di finale di Champions League tra Real Madrid e Juventus ha concesso al 93esimo minuto un rigore a favore degli spagnoli facendo svanire all’ultimo secondo l’impresa della Juve capace, fino a quel fatidico momento, di rimontare ben tre gol in casa della squadra più forte del mondo. Una decisione sulla cui legittimità si sono divisi ben due paesi, la Spagna e l’Italia, scatenando dibattiti di natura tecnica sulla necessità di introdurre la moviola in campo anche nelle competizioni europee, di stampo nazionalistico sulla presunta volontà di danneggiare le squadre italiane ma soprattutto sulle capacità dell’arbitro. Inesperto, incompetente, irrispettoso o peggio colluso, corrotto ma anche insensibile ai sacrifici dei giocatori: sensibilità elevata a metro di giudizio della prestazione arbitrale spiegata con la indimenticabile immagine del “bidone della spazzatura al posto del cuore”! Tanto clamore non meraviglia essendo ormai evidente la capacità degli eventi calcistici di andare oltre il dato sportivo fino ad assurgere a fenomeno sociale che occupa il dibattito quotidiano coinvolgendo trasversalmente la società anzi, come nel caso di Real-Juve, società di diversi paesi. Il calcio è ormai la più diffusa metafora della vita contemporanea, intellegibile a tutti in esso si riversano aspirazioni, sentimenti e frustrazioni sia personali che identitarie di intere società. Uno dei motivi del successo di questo sport è la presenza di poche regole che tutti conoscono perché imparate sin da piccoli senza studiarle e sulle quali -però- tutti discettano. Diciassette semplici regole (erano undici alla nascita nel 1858) che scontano l’impostazione culturale della nazione dove il calcio -per loro il football- è nato: l’Inghilterra. Un’impostazione fatta di poche norme per la cui applicazione ci si affida al comune buon senso ed alla buona fede di chi quelle regole deve farle rispettare ovvero l’arbitro. Tale tacito patto, questa presunzione di buona fede nei confronti dei giudici di gara sopravvive, per ragioni culturali, ormai solo in Inghilterra. Da noi, ed in tutti i paesi latini, l’arbitro non gode del medesimo rispetto anzi le sue decisioni, che per forza di cose scontentano qualcuno, sono l’argomento di discussione preferito delle domeniche calcistiche e la sua figura di giudice del match diventa il parafulmine su cui sfogare le frustrazioni di un’intera settimana. Insomma più che un ruolo di autorità l’arbitro svolge in Italia una funzione sociale di assorbimento della rabbia espressa in improperi di stampo personale o geografico, senza contare le offese a sfondo sessista e razzista. Il dato folkloristico -che solo in parte connota i cori anti arbitro negli stadi- non deve impedirci di riflettere sul rispetto nei confronti di chi sin da bambino, secondo solo a genitori ed insegnanti, e in un ambiente fondamentale per la crescita ovvero il gioco e lo sport, impone il rispetto delle regole e la cui considerazione è sintomatica dell’accettazione del principio di gerarchia nella nostra società. Oggi i social media permettono ad ognuno di noi di ergerci a giudici commentando in tempo reale eventi o decisioni altrui così da scatenare dibattiti su ogni questione sulla sola base di valutazioni espresse senza i corretti tempi di ragionamento e di informazione, e magari sulla spinta di pulsioni quasi sempre assolutorie nei nostri confronti e condannatorie nei confronti degli altri. Questo modus operandi si sta diffondendo come unico approccio alle problematiche odierne -che invece sono ancor più complesse che in passato- e spinge sempre di più a contestare l’autorità altrui sulla base di sospetti preconcetti e critiche non sempre fondate su dati certi. Ennio Flaiano diceva: “L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio.”. Ebbene i nemici ormai vanno oltre lo sport e sono tutti coloro che si assumono l’onere, spesso in solitudine, di prendere decisioni: medici che impongono i vaccini o assecondano la libertà di scelta abortista minacciati o attaccati senza averne le competenze scientifiche per farlo; presidi boicottati dai professori, professori vessati dai propri studenti e picchiati dai genitori perché hanno osato fare il proprio dovere: emettere un giudizio. E poi sindaci ed amministratori intimiditi, giornalisti che portano alla luce fatti che non si devono sapere finiti sotto scorta ed intellettuali controcorrente vittime di dossieraggi e diffamazione sul web. Sintomi precisi ed attuali di un’involuzione della società e frutto di una contraddizione: tecnologia e social media aumentano gli spazi e le opportunità di libertà individuali ma l’espressione di tale libertà fa emergere degenerazioni e violenza sotto ogni sua forma. Una società liberale -però- non può sopravvivere senza il riconoscimento dell’autorità, da quella politica fino a tutte le forme di autorità, a cominciare da quelle “di prossimità”. E’ nel riconoscimento di una gerarchia decisionale, ovviamente non imposta con la forza ma democraticamente accettata, che ognuno di noi trova garanzia e non minaccia delle proprie libertà: se ci si allontana da tali principi non ci resta che una società barbarica!
Francesco Cirigliano